Archivio | agosto, 2013

Pop Art americana (anni ’60)

8 Ago

La Pop Art inglese è stata più raffinata, per alcuni aspetti, di quella americana, nonché anticipatrice, ma il vero successo l’ha ottenuto quella d’oltreoceano. Probabilmente la formula targata USA è stata vincente in quanto, sfruttando al massimo le tecniche pubblicitarie, è riuscita ad avere un impatto maggiore sul pubblico e ha dimostrato maggior capacità di creare qualcosa di totalmente nuovo attraverso strumenti e iconografie assolutamente comuni. Diciamo che l’allievo americano ha superato il maestro britannico in quanto ha sviluppato maggior genialità sia per l’impiego dei mezzi che per la capacità di reinterpretare i modelli precedenti, del tutto snaturati dal loro contesto. Si tratta, in pratica, di una rivoluzione estetica maggiore che, però, è nata dallo stesso desiderio di ironizzare sulla società di massa evidenziandone i difetti, gli eccessi e la superficialità.

Penso sia sufficiente fare un confronto tra l’opera di Wasselmann, Still Life N.30 (1967) e il “manifesto” inglese di Hamilton: l’americano è più di impatto, visivamente parlando, l’occhio “apprezza” di più i suoi colori e la sua composizione. Anche qui il soggetto è comune: siamo in una cucina e vediamo oggetti noti a chiunque, con tanto di marchio in evidenza (Seven Up, Dòle e Kellogg’s Corn Flakes). La società del consumo è tutta concentrata lì su quel tavolo e su quel frigorifero (applicato sul dipinto, così come le piastrelle). I colori evidenziano un ambiente banalissimo che però assurge a diventare la cucina per eccellenza (quella della middle class americana). E’ lo scorcio di paesaggio  che si vede dalla finestra, e che sembra quasi una finzione rispetto ai mobili e agli oggetti -con quelle due arance e il vaso di fiori che ne accentuano la lontananza non solo fisica, ma anche metafisica dall’interno della casa-, ad apparire come una sorta di trompe l’oeil surreale rispetto agli oggetti, così reali e concreti. Il mondo, quello della natura ancora incontaminata, è fuori, lontano e apparentemente irraggiungibile, quasi come se fosse un quadro nel quadro a rappresentare un passato che non tornerà più. Se quello di Hamilton era il manifesto della Pop, questo di Wasselmann è il “manifesto pubblicitario” per eccellenza della Pop Art.

 Hamilton 56 Just what...

Ma tornando al movimento americano, va detto che il centro propulsore è la New York degli anni ’60, dove i primi artisti Pop espongono nella galleria di Leo Castelli, che ha saputo fare diventare la loro arte un vero business. Infatti è nel 1964 che Rauschenberg, Oldenburg e Dine sono invitati a partecipare alla Biennale di Venezia e sarà da questo momento che gli americani soppianteranno gli inglesi raggiungendo una fama planetaria. Ai succitati naturalmente si aggiungono l’artista Pop per eccellenza, Warhol, il suddetto Wasselmann, Rosenquist. e Lichtenstein. Ma a Warhol dedico un capitolo a parte, mentre qui evidenzio Wasselmann, Liechtenstein e Rosenquist.

TOM WASSELMANN (1931-2004) resta, per me, il più raffinato tra i pittori americani. A differenza di Warhol, che si basa prevalentemente sulla ripresa della tecnica fotografica, è un virtuoso, per così dire, che dà prova della propria abilità tecnica, oltre che della propria creatività in stile Pop. Basta guardare come riprende e inserisce i suoi modelli principali: Renoir, Matisse e Modigliani, passando anche per Cezanne. Nel dipinto, appunto, sono presenti Renoir (il quadro sulla sinistra) e Cezanne (la natura morta sul tavolo).

Wesselmann great american nude mix

Quest’opera, invece, fa parte della serie dei Great American Nudes e il richiamo ai modelli è evidente, ma molto più sottile. In questo caso l’immagine, tra colori da rivista o da cartellone pubblicitario, evoca i nudi di Matisse e Modigliani. Da notare come la donna abbia perso le connotazioni erotiche grazie proprio ai colori, che l’appiattiscono e la rendono come una figurina, privandola della sensualità femminile, sebbene gli organi sessuali siano così in evidenza. Lo stesso accade per tutta la serie di opere di questo tipo.

Wasselmann great-american-nude-92

ROY LIECHTENSTEIN (1923-1997) è, per così dire, il “fumettista” del gruppo. Si specializza nei comics nel senso che i soggetti sono appunto quelli, con tre caratteristiche principali:

1.essere estrapolati dal loro contesto,

2.essere ingigantiti al punto da mostrare nel dipinto la tecnica tipografica del retino

3.essere freddi.

Il decontestualizzare i personaggi dalla storia comporta il fatto di provocare un certo disorientamento brusco in chi guarda, poiché non si capisce cosa stia succedendo e perché. Questo, unito alle dimensioni delle figure, rese con i colori primari, senza sfumature, con i contorini netti, in genere poste sullo stesso livello dello sfondo (quindi annullando la prospettiva e appiattendo lo spazio) e con evidenziati i puntini (che nei fumetti, a dimensioni ridotte, non si vedono), fa sì che le figure non trasmettano alcuna emozione. Le didascalie, quindi, nonostante siano quasi sempre presenti, richiamano il fatto che il genere sia quello fumettistico, ma non servono né a comprendere meglio la scena, né a suscitare sentimenti di alcun tipo.

Lo scopo, infatti, è quello di utilizzare stereotipi di questa tecnica illustrativa per evidenziare i procedimenti del disegno commerciale, che per sua stessa natura appiattisce ogni cosa che rappresenta, sentimenti compresi. A dimostrazione del fatto che tutto finisce con l’essere considerato come semplice segno grafico e nulla più.

Drowing girl è probabilmente l’opera più famosa e anche rappresentativa di quanto spiegato. La ragazza, pur essendo in difficoltà in balia delle onde, non trasmette alcuna angoscia né paura di morire ed è piatta esattamente come i flutti. La scritta nella nuvoletta non aggiunge nulla, anzi, crea più confusione perché lo spettatore non sa chi sia Brad né come lei possa chiamarlo per avere aiuto(cosa che, anzi, appare ridicola, viste le condizioni in cui si trova)  e tanto meno come sia finita in acqua.

Roy_Lichtenstein_Drowning_Girl (1)

Come si può notare non mancano neanche esempi di rielaborazioni in tecnica comics di opere e artisti precedenti. In diversi casi, infatti, Liechtenstein si richiama al surrealismo di Dalì e al cubismo di Picasso.

lichtenstein

Liechtenstein- cubismo

JAMES ROSENQUIST (1933) si forma nel mondo della grafica pubblicitaria, così come Warhol. Si distingue dagli altri per il fatto di dipingere sempre dei dettagli accostati ad altri dettagli, generalmente legati a personaggi o fatti di cronaca e di dimensioni da cartellone pubblicitario. E’ lui stesso a definire il proprio modo di dipingere: “Se potessi prendere un frammento di qualcosa di reale, e metterlo in uno spazio a una certa dimensione, potrei fare un dipinto in cui la gente riconoscerebbe la cosa a una certa velocità. Ma il particolare più grande sarebbe il più vicino, e il più difficile da riconoscere.” (1960).

Ed ecco che nascono accostamenti di soggetti noti alla società, ma che, ingranditi e affiancati, creano uno strano effetto ottico e psicologico, tra il bizzarro e lo straniato, soprattutto se agli elementi in bianco e nero si uniscono gli aggrovigliati e viscidi spaghetti al pomodoro. E’ una sorta di reinterpretazione delle immagini pubblicitarie: nei cartelloni il messaggio è chiaro, così come l’iconografia, mentre nelle opere di Rosenquist questi perdono la certezza e i confini del certo sfociano in quelli dell’incerto e dell’irreale.

Lo dimostra I love you with my Ford. I soggetti, pur ritratti nei particolari, sono chiarissimi: il paraurti di una macchina, una donna di probabilmente appoggiata su un cuscino, e degli spaghetti. Il messaggio, invece, è più ambiguo: sono in quell’ordine a indicare il grado di amore? Ma gli spaghetti spiccano su Ford e donna: allora ama di più il cibo? Ma nel titolo dice “I love you” e poi “with my Ford”, il che presume che l’auto sia l’ultima in ordine affettivo. E “you” indica la persona o indica lei e gli spaghetti insieme?

Rosenquist i love you with my ford

Decisamente di più difficile interpretazione The friction desappears sebbene anche in questo caso macchina, spaghetti e globo, con i neutroni intorno, siano evidenti. Le immagini, inoltre, sono sovrapposte, come se l’occhio, che vede scorrere velocemente i cartelloni pubblicitari, avesse difficoltà a distinguere tutto e lo mescolasse confusamente. Dunque non ci sono disegni netti e nulla spicca in modo particolare, diventano piatto, così come accade nei grandi manifesti che vediamo passare via mentre sfrecciamo in macchina.

the friction disappears

Pop Art inglese (anni ’50-’60)

6 Ago

Gli anni Sessanta sì che, sotto la spinta rivoluzionaria del periodo storico-sociale, sono stati un vero meltin’ pot dal punto di vista artistico.

Infatti, per la prima volta, moda, costume, stile di vita e partecipazione politica diventano i diretti protagonisti delle arti figurative, che superano i propri confini tradizionali -relativamente alle tecniche, al linguaggio e ai soggetti rappresentati- per impossessarsi di nuove forme espressive, prese in prestito direttamente da quelle della comunicazione di massa. Lo scopo avrebbe dovuto essere quello di utilizzare tali mezzi mediatici per criticare la società dei consumi, ma, visti gli effetti ottenuti e il modo di sfruttare tali sistemi, alcuni artisti sembra che, piuttosto, abbiano usato a vantaggio della propria celebrità gli strumenti di massificazione, esaltandola ancora di più.

POP ART INGLESE

Partiamo dalle origini. Quando dici Pop Art pensi istintivamente a Warhol e, in generale, al movimento artistico americano. Ma va subito precisato che il “fondatore” della Popular Art (diventata Pop in base alla definizione e abbreviazione del critico Lawrence Alloway) è l’inglese Richard Hamilton, il cui  Just what is it that make today’s homes so different, so appealing? (nella foto), collage del 1956, è considerato il manifesto di questa nuova corrente. E non è difficile capire il perché…

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Innanzitutto il nome “Pop” spicca sull’enorme lecca-lecca rosso (il lolli-pop) in primo piano, mentre sul paralume campeggia il marchio Ford, sul tavolino spicca del cibo preconfezionato e sul pavimento, a sinistra, un aspirapolvere della Hoover è utilizzato dalla padrona di casa. Inoltre sono presenti personaggi simbolo del momento: il culturista, la pin-up, la casalinga borghese. Sono tutti decontestualizzati, ma inseriti in un contesto comunissimo al pubblico, il salotto di un appartamento, e circondati da oggetti di consumo domestico noti a tutti. E non solo: il titolo dell’opera è tratto da una rivista di costume e la sua impostazione è quella di un cartellone pubblicitario. Non a caso: infatti la traduzione è: Ma cosa rende le case di oggi così diverse, così attraentie molte immagini utilizzate sono ritagli tratti da giornali, proprio perché il collage doveva partecipare a un’esposizione sulle nuove arti multimediali, della comunicazione e della progettazione di interni. Infine due curiosità che non si notano facilmente: il tappeto è costituito da una folla di persone vista da lontano, mentre il soffitto è la curva della Luna vista dallo spazio.

Se Hamilton utilizza tutti soggetti ed elementi assolutamente tipici della pop art, altri artisti inglesi, per alcuni aspetti più “romantici”, preferiscono la commistione di stili e soggetti, ma sempre in aperta rottura con la società dell’epoca. Ed è così che Peter Blake nel suo Love wall (1961) accosta immagini di icone come Marilyn Monroe a vecchie foto in bianco e nero della zia, che aggiungono un tocco di nostalgica memoria retrò rispetto alle immagini contemporanee e dai colori accesi. Per non parlare dei collage con loghi di marchi delle multinazionali e icone del fumetto e del cinema, in particolare americani.

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Peter_Blake_Sergeant_Peppers

BLAKE+

Patrick Caufield è ancor più raffinato, in quanto pur utilizzando colori freddi e piatti, tipici dei procedimenti tipici delle immagini realizzate industrialmente, adotta una prospettiva e un impianto costruttivo cinquecenteschi. Ne è un esempio Coloured still life (1967).

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Nella Pop Art inglese la critica alla società del consumo è palese ed evidenziata dal voler rimarcare la differenza tra tecniche di comunicazione industriali, quindi in serie, di facile e veloce realizzazione, rispetto alla raffinatezza d’esecuzione delle tecniche artistiche classiche, uniche e artigianali. Da notare, infatti, come uno dei soggetti preferiti e ricorrenti di Caufield siano vasi e suppellettili: la forma classica delle anfore si unisce alla vivacità dei colori freddi e alla ripetizione in serie; i vasi sembrano piatti, assolutamente bidimensionali, mentre la prospettiva dà idea della profondità e del numero indefinito dei pezzi. Nell’ultimo quadro, invece, il soggetto è più moderno, viste le sedie e la scala mobile sullo sfondo, così come i colori, più tenui dei precedenti, ma sempre freddi. E’ evidente, invece, lo studio della prospettiva per la disposizione degli oggetti che sembrano, però, schiacciarsi e appiattirsi contro il fondo.

 

 

 

 

Pottery 1969 by Patrick Caulfield 1936-2005

 

Patrick-Caulfield-258

 

 

Il “meltin’ pot” della Biennale 2013

1 Ago

“Sorge (…) la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte (…) dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo“. (Tommaso Campanella, La città del Sole)

Nel 1602 il frate domenicano già progettava un ideale meltin’ pot in cui culture e artisti differenti potessero convivere e confrontarsi in modo pacifico.

Esattamente 353 anni dopo, nel 1955, un certo Maurino Auriti si recava all’ufficio brevetti americano per depositare la stessa invenzione: il “Palazzo enciclopedico”, ossia il progetto di un grattacielo alto 700 metri che doveva estendersi sulla superficie di 16 isolati nella città di Washington. Insomma, un’altra utopia, a scala più ridotta rispetto al progetto urbanistico di Campanella, ma pur sempre una babele culturale con lo scopo di raccogliere in modo enciclopedico, e quindi universale, tutta la cultura umana.

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E’ lo stesso intento della della Biennale  20013, che ha preso il via da due mesi e che proseguirà fino al 24 novembre. Il curatore di quest’anno è Massimiliano Gioni (il più giovane di tutte le edizioni), che intitolando la 55 Esposizione Internazionale d’Arte: Palazzo Enciclopedico, ha voluto rendere omaggio all’italo-americano Auriti, dimostrando come si possa effettivamente condensare e rappresentare la creatività artistica attraverso un percorso che parte dai primi del novecento e arriva ai giorni nostri. Infatti sono 88 le nazioni che espongono, tra cui 10 nuovi ingressi (Angola, Bahamas, Regno del Bahrein, Repubblica della Costa d’Avorio, Repubblica del Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay e Tuvalu) e la partecipazione straordinaria della Santa Sede. Il totale è di 150 artisti (tra cui evidenzio, per campanilismo, la ligure Milena De Martino) e oltre 4.000 opere.

Si potrebbe affermare, dunque, che Gioni ha così riunito le precedenti idee utopiche, realizzando qualcosa di effettivamente concreto, che mette insieme sia l’ideale della città di Campanella che dell’edificio di Auriti, dal momento che la mostra si snoda attraverso vari padiglioni dislocati in diversi punti della città. Una sintesi perfetta, insomma, che probabilmente i suoi predecessori avrebbero gradito molto.

BIENNALE LOGO

Dal momento che si tratta di un amarcord che vuole far risaltare le evoluzioni e le reinterpretazioni artistiche avvenute nell’arco di circa un secolo, l’intenzione della sottoscritta -che andrà a Venezia sabato e domenica prossimi- è quella di ripercorrere le principali tappe dell’arte contemporanea dagli anni ’60 a oggi (perché i Sessanta sono stati rivoluzionari e gli artisti che operano attualmente sono ad essi collegati da un filo diretto) illustrandone le caratteristiche principali e indicando anche come la filosofia abbia riflettuto sui diversi periodi creativi e sul loro valore intrinseco oltre che estetico.